"L'innocenza dei musulmani", il film che ha scatenato la
reazione violenta e rabbiosa da parte degli integralisti islamici in tutto il
mondo e che ha portato all'uccisione - tra gli altri - dell'ambasciatore americano in Libia Christopher Stevens, non sarà
censurato da Google, proprietaria di YouTube, dove il film sta girando da
tempo. O almeno non sarà censurato ovunque ma per ora solo in India, Indonesia,
Libia ed Egitto. Questo malgrado una richiesta di rimozione da parte di un
imbarazzato Barak Obama, che deve fronteggiare anche l'attacco interno
dell'avversario per la Casa Bianca Mitt Romney, secondo il quale il presidente
in carica è troppo tiepido nella sua risposta agli attacchi verso le ambasciate
e gli interessi degli Stati uniti.
Appare evidente che la reazione rabbiosa degli integralisti,
guidata e istigata da Al Qaeda,
ha motivazioni che vanno oltre il contenuto del controverso film. Motivazioni
che vanno ricercate nella loro decennale lotta contro "l'imperialismo
occidentale", soprattutto made in Usa, in un momento propizio per
approfittare dell'esito (deludente, finora) della cosiddetta primavera araba e
acquisire potere nelle nazioni interessate. Ma il problema della pretesa
intoccabilità della figura del fondatore dell'Islam e del suo libro sacro
esiste, ed è serio. Ne sanno qualcosa - tra i più conosciuti - Salman Rushdie,
condannato a morte da una fatwa dell'allora Ayatollah Khomeini per il suo libro
blasfemo "I versetti satanici" già nel 1989, oppure più recentemente
il vignettista danese Kurt Westergaard, che aveva ritratto il profeta in una
sua vignetta con una bomba nel turbante. Un estremista somalo riuscì due anni
fa a raggiungerlo nella sua casa in Danimarca e fu arrestato (e poi condannato)
solo un attimo prima di mettere in pratica il suo proposito omicida. Non si
salvò invece Teo Van Gogh, regista olandese assassinato per aver inserito nel
suo film "Submission" scene giudicate blasfeme dal pazzo di turno.
E' interessante l'atteggiamento di Google, che solitamente si fa
paladina della libertà di espressione e protagonista di lotte per i diritti
civili, come per la campagna "Legalize love" in favore dei diritti
delle persone omosessuali, con un tour che sta girando il mondo a partire da
alcuni dei paesi meno propensi a concederli, questi diritti: Singapore e
Polonia.
In un comunicato, la società afferma che il video incriminato
resterà disponibile su YouTube (di cui è proprietaria) perché non vìola le sue
linee guida, che garantiscono la libertà di espressione ma non consentono
invece lo hate speech,
ovvero istigazione all'odio chiaramente diretto verso persone o gruppi di
persone. Diventa spesso difficile stabilire quando il limite tra libertà
d'espressione e istigazione all'odio viene varcato, ma «questa può essere
considerata una sfida perché quello che va bene in un Paese può essere
offensivo altrove: questo video, che è ampiamente disponibile sul web, rientra
chiaramente nelle nostre linee guida e quindi resterà su Youtube», si spiega
nel comunicato; fatti salvi quei paesi dove è del tutto illegale o dove (Libia
ed Egitto) ragioni di "opportunità" ne sconsigliano la diffusione.
«Libertà di espressione a geometria variabile», l'ha definita in
un graffiante articolo Massimo Gaggi sul Corriere.it,
evidenziando «l'impossibilità di mantenere, nel mondo della comunicazione
digitale e globalizzata, una visione della libertà d'espressione universale e
assoluta, applicata ovunque nello stesso modo [...] Chi decide quali sono le
situazioni di particolare delicatezza che giustificano un intervento censorio,
sia pure temporaneo?». Viene ricordato anche l'atteggiamento ambiguo di Google
sul mercato cinese, dove solamente lo spostamento a Hong Kong dei suoi server
avrebbe consentito di cessare la presunta censura di alcuni contenuti per
compiacere il governo di Pechino.
E' facile condannare la violenza cieca e l'intolleranza di alcuni
gruppi religiosi (gli integralisti islamici ma anche chi ha pensato e
realizzato il film per una stupida rivalità tra religioni), ma che debba essere
una società privata votata al business a dover decidere quando difendere la
libertà di espressione, e quando invece è inopportuno, è più difficile metterlo
in evidenza. Non è rassicurante che debba essere il mercato a porsi il problema
di evidenziare, volente o nolente, che gli spazi di libera circolazione di
informazioni e opinioni, ormai da anni quasi esclusivamente digitali, non sono
più al sicuro, nemmeno loro, dall'intolleranza ideologica.
Google (e gli altri social network a diffusione planetaria) è in
questi giorni sotto attacco - più o meno velato - per la sua presunta
incoerenza. Ma non sarà piuttosto che è stata lasciata sola in questa lotta?
Lotta che, in ultima analisi, non sarebbe nemmeno di sua esclusiva competenza.
Il potere politico è quello che deve essere chiamato in causa, semmai, perché
troppo spesso si nasconde dietro l'impossibilità di interferire nel libero
mercato e garantisce la libertà di fare impresa nel settore della comunicazione
e diffusione di idee quando fa comodo, ma in altri casi pretende la censura
senza assumersene la responsabilità diretta.
Pubbicato ieri qui.
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